Ancora oggi non sono stati abbattuti gli stereotipi di genere e tantissime persone, giovani compresi, sembrano suddividere gli sport in due categorie: femminili e maschili. Di conseguenza, sembra che come le donne non possano praticare determinati sport, gli uomini virili non ne possano praticare altri e la dimensione legata alla competizione e all’agonismo debba essere preclusa alle donne.
Il pregiudizio della mancanza di spirito competitivo nelle donne è intrecciato a doppio filo con il divieto di una loro partecipazione alle Olimpiadi e alla falsa credenza che le donne non potessero praticare attività fisiche pericolose e che se qualche tipologia di attività fisica fosse loro concessa, dovesse essere finalizzata ad una crescita armonica, con l’obiettivo ultimo di generare figli sani per la patria.
Nonostante siano passati più di 2400 anni dall’età classica della Grecia antica, l’agonismo delle donne sembra essere ancora messo in discussione. Eppure a Olimpia, nell’Elide, si svolgeva una corsa nell’ambito di giochi olimpici femminili paralleli a quelli maschili, dedicati ad Era e chiamati Heraia.
L’ultima ricerca, presentata da Margherita Corrias, è stata un appassionante viaggio nel tempo che affonda le radici nella storia e nel mito ma che ha un rapporto stretto con lo sport: dalla corsa in onore di Elena di Troia alla principessa Cinisca, prima donna dell’Antica Grecia a vincere alle Olimpiadi e al mito di Atalanta che, secondo la leggenda, divenne un’abile cacciatrice e atleta.
Se l’exemplum della donna romana perfetta sarà sempre costituito da Lucrezia, vittima di una violenza cui si era opposta e che decide di suicidarsi, dichiarando di farlo affinché nessuna donna debba più essere vittima dello stesso oltraggio, possiamo ravvisare nelle donne romane casi concreti di lotta, più o meno consapevole, per guadagnarsi spazi di autonomia decisionale e libertà di #autodeterminazione anche attraverso la pratica sportiva.